ESCLUSIVA – Prestanti: “Catania pietra miliare della mia carriera. Massimino, grandissima umanità. In rossoazzurro ci sono obblighi verso la città”

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Stagione 1974-75, Catania promosso in Serie B. Annata ricca di soddisfazioni per l’ex difensore rossoazzurro Valeriano Prestanti che, in carriera, ha fatto anche parte della rosa del Monopoli tra il 1982 ed il 1987. Martedì ha assistito alla partita Monopoli-Catania così come un altro ex etneo, Rocco Roberto Paris, intervenuto nei giorni scorsi ai microfoni di TuttoCalcioCatania.com. Abbiamo avuto il piacere di contattare telefonicamente anche Prestanti, ben lieto di rispondere alle nostre domande.

Allora Valeriano, cominciamo a sfogliare l’album dei ricordi in rossoazzurro…
“Catania è una delle pietre miliari della mia carriera, non lo dico tanto per dire. E’ stato il mio primo campionato importante da professionista. Abbiamo pure vinto. Fu una cavalcata molto difficile, arrivammo a +1 dal Bari. Una squadra stupenda con gente come Spagnolo, Ciceri, Petrovic, Simonini, Malaman. Per me è stato bellissimo. Ho ancora amici a Catania, sono rimasto molto legato affettivamente. Avevo 22 anni all’epoca, venni dalla Fiorentina. Scesi giù sposandomi. E’ stata praticamente la mia luna di miele Catania (ride, ndr). C’è gente che viene a Catania in villeggiatura, a conferma che il posto è stupendo. Io abitavo ad Aci Castello. Le cose sono andate per il meglio ed il calore della gente è qualcosa di indimenticabile. Io ho assaggiato le categorie superiori con il Vicenza ma la gioia di Catania non l’ho mai provata altrove”.

Quanto fu determinante la forza del gruppo in quel Catania?
“Squadra solida, formata da gente veramente forte per la categoria. Non eravamo favoritissimi per la vittoria finale. C’erano formazioni come Bari, Reggina, Lecce… belle realtà. La solidità del gruppo ha contribuito a fare la differenza, eravamo molto legati tra di noi anche se con caratteri completamente diversi. Petrovic, ad esempio, era un pazzo scatenato. Quando si presentavano problemi eravamo tutti uniti. Io mi sentivo protetto, anche se me la cavavo da solo. Voglio bene a tutti quei ragazzi, un gruppo straordinario. L’importanza di avere un gruppo unito e compatto conta sempre nel calcio, anche se oggi è difficile gestire i gruppi numerosi perchè il giocatore ha sempre dentro quel bambino che vuole giocare. Può prendere i soldi che vuole ma il muso te lo tiene sempre se non gioca. Adesso l’allenatore è più un sociologo. Ormai i tempi sono cambiati, le rose sono ampie. Noi scendevamo in campo solo coi numeri sulle magliette, sembravamo carcerati… Ai miei tempi le riserve erano poche. Se ti facevi male giocavi con le distorsioni. A Vicenza ho giocato con una frattura al mignolo. Adesso se fanno un colpo di tosse, mamma mia… altri tempi”.

Facciamo un tuffo nel passato, il ritorno da Torre del Greco e la trasferta di Reggio Calabria…
“Dopo la vittoria esterna con la Turris, l’aeroporto di Fontanarossa era pieno di gente. Io mi sono ritrovato improvvisamente dalla scaletta dell’aereo al pullman senza mettere piedi a terra. Mai vista una cosa del genere nella mia carriera. Altri compagni di squadra a Catania e tuttora amici continuano a parlare di quei momenti. Spagnolo, Ciceri, Battilani… ci sentiamo tutti ancora. Io ero il più giovane del gruppo, fui convocato nella nazionale semi-pro. Ricordo anche l’episodio di Reggio Calabria. Avevamo un punto di vantaggio sul Bari. Massimino si era candidato alle comunali con la lista numero 32. Perdevamo 2-0, Colombo fece il 2-1, poi Ciceri pareggiò ad un quarto d’ora dalla fine e, sui miei piedi, mi capitò la palla che valse il 3-2. Uno spettacolo, una cosa assurda, un misto di emozioni. L’associazione 32/3-2 fu qualcosa d’incredibile”.

A proposito di Massimino, quali ricordi conservi del Presidentissimo?
“Massimino aveva una grandissima umanità e me l’ha dimostrata. Quell’anno mia moglie era incinta di sette mesi, dovevo stare con lei e non mi permettevano di salire in aereo perchè si rendevano necessari determinati permessi. Allora dovetti viaggiare in macchina. Programmai delle tappe, non potevo fargli fare un viaggio così lungo. Chiesi al Presidente che mi desse il permesso di andare via perchè c’era in programma una gara delle vecchie glorie per festeggiare la vittoria del campionato. Lui fu comprensivo, mi mandò in sede conteggiandomi quel che ancora mi doveva. Ritornai al cantiere, in giacca ma sempre con le scarpe sporche. Mi fece un assegno personale e mi abbracciò. Questo non lo dimenticherò mai. Capì la mia esigenza e non fece problemi, pur sapendo che neanche una settimana prima la Fiorentina mi aveva riscattato. Non ero più del Catania ma si comportò da signore lo stesso, fino in fondo”.

Rammaricato per l’addio al Catania dopo una sola stagione?
“Certamente. Ricordo anche una petizione di tifosi che raccolsero le firme affinchè rimanessi ma ormai era tutto fatto. Successivamente tornai a Catania da giocatore del Vicenza. Brividi in campo quando la gente gridò il mio nome. Di solito i tifosi fanno il contrario, invece questa cosa mi sorprese molto. Ho vissuto un solo anno ma intensissimo”.

Quali rapporti hai avuto con gli allenatori del Catania?
“All’inizio sedeva in panchina Gennaro Rambone, un allenatore che però poi Massimino capì che era giusto sostituire e venne Egizio Rubino. Era un pò tesa la situazione. Rambone era un bravo tecnico ma caratterialmente si scontrò con molti giocatori di personalità tipo Codraro e Petrovic. Io ero il più giovane e quindi non avevo molta voce in capitolo, a me interessava giocare e basta. Rubino lo ricordo come un signore, persona eccezionale. Era un pò vulcanico ma posso solo parlarne bene”.

Hai anche indossato la casacca del Monopoli…
“A fine carriera, dopo Pescara, a 31 anni venni a Monopoli vincendo subito la C2 e mi sono risposato qua. Ho avuto due femminucce, mentre il maschietto in Toscana mi ha fatto diventare nonno di due gemellini ed è stato concepito a Catania tra parentesi. Sono rimasto a Monopoli aprendo un’attività commerciale, ma non fa per me il commercio. Io devo stare sul campo, allora decisi di aprire una scuola calcio. Ho cominciato a lavorare come osservatore per il Parma, poi alla Fiorentina. Vado sui campi tutti i giorni, da 30 anni esiste la scuola calcio. Il Monopoli mi diede fiducia dopo essere stato un anno fuori dal calcio per via di situazioni spiacevoli vissute a Pescara. A Monopoli sono diventato pugliese d’adozione, anzi ormai mi ritengo più pugliese che toscano. Da 36 anni sono qui”.

Sei rimasto principalmente legato al Catania oppure al Monopoli? Parlami, inoltre, delle ambizioni delle due squadre…
“Catania ce l’ho nel cuore, anche se per un solo anno resta dentro di me un legame fortissimo. Anche Monopoli mi ha dato tanto. So benissimo delle ambizioni del Catania. Il Monopoli non credo possa ottenere una Serie B, il Catania possiede ambizioni diverse e stiamo parlando di contesti molto differenti. Spero che qualcuno non voglia far pagare al Catania cose pregresse, in questo mondo ci si può aspettare di tutto. La squadra etnea sta sostenendo un tour de force? Ha la struttura ideale per sostenere un numero elevato di impegni secondo me, poi dipende anche da eventuali infortuni. Se si parla di stanchezza… questi fanno solo quello dai. Giocassi ancora, starei volentieri dalla mattina alla sera sul campo…”.

Quanto pesa la maglia rossoazzurra?
“Chi veste quella maglia sa che è pesante, sa di non fare una passeggiata. Ci sono degli obblighi verso la città. Qui subentra l’aspetto caratteriale, fondamentale. Le gambe si muovono perchè la testa dice di muoversi. La testa detta tutto. Avere un fisico ben allenato è importante ma l’intelligenza, l’acutezza, gli istinti partono dal cervello e non dalle gambe. La guida tecnica di una squadra è anche importante perchè l’orchestra funziona bene se c’è un buon orchestratore. Se l’allenatore è anche un valido psicologo riuscendo a fare capire l’importanza del ruolo che i giocatori hanno in questo momento storico, significa tanto. Serve il giusto peso. A calcio si deve giocare anche per la gioia di giocare”.

Il Monopoli è una squadra che esprime un buon calcio. Quanto conta l’espressione del gioco per vincere?
“Il gioco è bello per uno che vede la partita distaccato. Ma se poi non fai gol… si gioca sempre per vincere. Tutte le situazioni, gli schemi settimanali sono finalizzati per andare a segno e vincere. Il fatto estetico è importante ma tante volte sono gli episodi a fare la differenza e non coincidono sempre con il bel gioco. Bisogna mettere la palla dentro, quello è lo scopo principale nel calcio”.

Quali allenatori ti hanno trasmesso qualcosa di più?
“Da tutti ho imparato qualcosa. Ho avuto allenatori nelle giovanili della Fiorentina come il compianto Sergio Cervato, era un difensore anche lui e mi ha dato le fondamenta di questo ruolo. Poi a Vicenza è stato come un padre per me Giovan Battista Fabbri. Con lui ho siglato 7 gol in Serie A, non male per un difensore a quei tempi. Ha tirato fuori il meglio di me stesso”.

Si ringrazia Valeriano Prestanti per la gentile concessione dell’intervista.

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